Ancora una volta l’assemblea delle nazioni Unite decide di non decidere sfiorando il risibile sulla votazione della risoluzione su Gaza. Giorni di trattative, fughe in avanti, colloqui riservati per arrivare a un nulla di fatto. Dopo la beffa della calendarizzazione nemmeno al primo posto dell’ordine del giorno, ecco che alla votazione arriva un testo che chiede maggiori aiuti per Gaza, ma non una tregua immediata o l’urgente sospensione delle ostilità come previsto in un primo tempo. Solo «misure urgenti per consentire immediatamente un accesso umanitario sicuro e senza ostacoli», per poi creare le condizioni per una «cessazione sostenibile delle ostilità». Un flop su tutta la linea che segna la spaccatura tra i Paesi Arabi e l’asse Stati Uniti-Israele, eventualmente disponibili a una tregua ma nettamente contrari alla fine del conflitto senza prima ottenere il rilascio degli ostaggi e la completa distruzione di Hamas. Il segretario dell’Onu Guterres critica ancora lo Stato ebraico: «Il vero problema per gli aiuti è l’offensiva di Israele». Mentre l’ambasciatrice americana all’Onu Linda Thoms-Greenfield, si dice «sorpresa e delusa» per l’assenza dalla risoluzione di una condanna all’attacco di Hamas del 7 ottobre.
Il dialogo per un possibile cessate il fuoco va comunque avanti su altri canali. L’ultima ipotesi sarebbe quella di una tregua di circa due settimane in cambio di alcuni ostaggi. Ma non è facile. Hamas ha già respinto la proposta di una settimana di tregua in cambio di tutti i rapiti e pone come condizione «la fine dell’aggressione da parte di Israele». Anche perché i miliziani sanno bene che l’unica arma di trattativa in loro possesso è proprio quella relativa agli ostaggi e, duramente ma concretamente, vogliono monetizzarla. Un compromesso quindi non è facile. Israele continua a colpire duramente la Striscia, il ministro della Difesa Gallant torna a minacciare il leader di Hamas Yahya Sinwar: «Presto incontrerà le canne dei fucili israeliani», ha detto. Mentre il Papa ha inviato in terra Santa per il Natale l’elemosiniere, cardinale Konrad Krajewski.
Nel frattempo, molto significative le voci che arrivano dagli Stati Uniti, con la stampa stranamente unita in diversi attacchi contro l’azione israeliana. Il primo è un’inchiesta del New York Times secondo cui Israele ha usato bombe molto distruttive in aree considerate sicure per i civili. In particolare il Sud di Gaza, dove Israele aveva regolato ai civili di spostarsi, sarebbe stata poi oggetto di pesanti bombardamenti. Il quotidiano ha utilizzato uno strumento di intelligenza artificiale per scansionare le immagini satellitari identificando ben 208 crateri effetto dei bombardamenti. A proposito degli ordigni, la Cnn denuncia che Israele ha sganciato centinaia di bombe da 2mila libbre (oltre 907 kg), molte delle quali in grado di uccidere o ferire persone a più di 300 metri di tratto, bombe devastanti che secondo l’emittente sono quattro volte più pesanti delle bombe più grandi che gli Stati Uniti hanno sganciato sull’Isis in Irak, con una intensità che «non si vedeva dai tempi del Vietnam». Gli esperti di armi e guerra denunciano che «L’uso di queste bombe in un’area densamente popolata come Gaza significa che ci vorranno decenni prima che le comunità si riprendano». L’ultimo attacco arriva dal Washington Post che mette in dubbio le prove presentate da Israele per significare che Hamas utilizzasse l’ospedale di al-Shifa come base operativa e quartier generale. «Settimane prima di inviare le sue truppe all’interno dell’ospedale Israele ha lavorato per giustificare l’operazione ma nulla tra il materiale fornito dimostra quanto affermato dall’esercito». Segnali, più che evidenti, che le crepe sul sostegno all’azione militare di Israele non sono solo all’interno del Palazzo di vetro ma anche nell’opinione pubblica del suo principale alleato.