La morte di Henry Kissinger nonostante la ineluttabilità dell’età che mai come in questo caso non si conta con gli anni ma con la capacità di lavoro, apre un baratro per chi ha lavorato nella diplomazia o quantomeno è studioso o appassionato della politica internazionale. Dopo una vita molto lunga e piena, se ne va un vero mostro sacro della scena internazionale (un viaggio a Pechino appena qualche settimana fa) che ha contribuito a plasmare l’ordine mondiale negli anni in cui è stato Segretario di Stato, e anche dopo aver dismessi i panni di statista.
Non si possono contare i personaggi influenti – politici, militari, diplomatici – che sono passati per gli uffici della «Kissinger&Associates» a New York, così come gli ospiti nei suoi pranzi che teneva abitualmente presso il Four Seasons di Park Avenue, discutendo con la sua voce roca e carismatica. Ma Kissinger era anche un uomo che sapeva godersi la vita, come testimoniano la sua passione per le belle donne e le sue frequentazioni con l’élite italiana (l’avvocato Agnelli su tutti).
Kissinger ha indubbiamente contribuito a scrivere pagine fondamentali della politica internazionale del Novecento, a cominciare dallo storico disgelo con la Cina maoista all’inizio degli anni Settanta durante la presidenza Nixon che iniziò a spostare gli equilibri definiti dalla Guerra Fredda. Probabilmente, un Segretario di Stato caratterizzato da una impronta ideologica più marcata non avrebbe mai concesso un’apertura simile a un Paese comunista; ma la bussola di Kissinger era il realismo, che lo portava ad analizzare le dinamiche internazionali con realismo e razionalità.
Un approccio che si può riscontrare nei numerosi eventi internazionali in cui ebbe un parte fondamentale: ad esempio in Medio Asia quando favorì la pace tra Egitto e Israele, che dura ancora oggi ed è un elemento di fondamentale stabilità nella regione; oppure quando consentì di porre fine alla fallimentare guerra in Vietnam, circostanza per cui fu addirittura insignito del Premio Nobel per la pace nel 1973; mentre fu invece più discutibile la sua azione in America Latina, dove portò gli USA a favorire il golpe che portò alla dittatura militare di Pinochet e probabilmente a chiudere un occhio sull’altra dittatura che si impose pochi anni dopo in Argentina. Nel bene o nel male, Kissinger agì sempre sulla base della realpolitik applicando però la teoria sul agro delle diverse situazioni.
Sono diverse le lezioni che si possono trarre dall’operato di Kissinger. La più importante è quella relativa al suo metodo di lavoro: flessibile e anche spregiudicato nel perseguire l’interesse nazionale degli Stati Uniti, ma allo stesso tempo determinato nel non voler arretrare sul rispetto dei principi di civiltà. Un Machiavelli moderno, ottimo esempio di come dovrebbe essere esercitato il potere sulla scena internazionale in un mondo complesso come quello in cui viviamo oggi.
Non si può poi negare la lungimiranza che ebbe nell’intuire alcune tendenze che si sono poi materializzate nei decenni successivi: pensiamo ad esempio all’ascesa della Cina, che non può essere ignorata o lasciata in un pericoloso isolamento. Kissinger aveva già previsto uno schema multipolare in cui gli Usa devono cercare di mantenere il loro parte da capofila delle democrazie liberali senza perseguire una supremazia che sarebbe insostenibile e porterebbe invece ad un aumento della conflittualità globale.
Uno schema che condanna l’Europa a un parte subalterno aggravato dai velleitari nazionalismi. Kissinger da stratega internazionale ci lascia l’insegnamento che per ogni apertura al dialogo bisogna prima costruire le proprie posizioni di forza materiali e morali e poi adattarle senza cedimenti al contesto del momento.